La disciplina relativa al mantenimento del coniuge in caso di divorzio è regolata prevalentemente dal codice civile italiano. Nello specifico l’articolo 156 del Libro Primo, che si riferisce agli effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi, sancisce che il giudice, in sede di giudizio di separazione, stabilisce a favore del contraente debole (così chiamato per la minor capacità economica; nella maggior parte dei casi è rappresentato dalla moglie) il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al mantenimento (fra cui rileva l’obbligo di prestare gli alimenti) nel caso in cui non percepisse un reddito sufficiente a tale scopo.
Occorre precisare, dunque, che il presupposto necessario affinchè si configuri una tale ipotesi è il vincolo matrimoniale o, meglio, i diritti e i doveri reciproci dei coniugi, così disciplinati dall’articolo 143 del codice civile: in queste disposizioni ritroviamo le basi morali su cui si fonda il matrimonio civile, vale a dire l’obbligo di fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione e coabitazione.
Sconfinando al di fuori dell’ambito codicistico, assume importanza in materia di quantificazione dell’assegno divorzile una legge speciale, la 898/1970, articolo 5. In questa disposizione viene ribadito la necessità di far ricorso ad un criterio di adeguamento automatico dell’assegno, con riferimento agli indici di svalutazione monetaria o a casi di palese iniquità fra le parti. Al giudice viene inoltre riservata la facoltà di intervenire ed eventualmente escludere la previsione della quota da versare alla moglie con sentenza motivata.
Disciplina precedente
Il diritto al mantenimento della moglie è un tema che è stato più volte modificato negli anni, soprattutto dalla giurisprudenza delle Corti. Fino al 2017 difatti, la determinazione dell’assegno di mantenimento coniugale veniva applicata nei tribunali sulla base del criterio del tenore di vita: grazie a questo fattore il coniuge debole poteva contare su un importo tale da consentirgli di condurre un livello di vita pari a quello goduto in costanza di matrimonio. Il tenore di vita si calcolava tenendo conto delle entrate patrimoniali complessive dell’altro coniuge, in particolar modo del reddito. Questo ragionamento giurisprudenziale godeva di una giustificazione che trovava il suo espresso fondamento nell’articolo 29 della Costituzione, il quale sancisce che il matrimonio deve basarsi sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nei limiti stabiliti dalla legge e a garanzia dell’unità famigliare.
É doveroso precisare, al fine di comprendere al meglio la successiva analisi, che con la semplice separazione permane l’obbligo di assistenza morale e, quindi, l’ assegno di mantenimento. Il nodo cruciale riguarda la vita condotta dai coniugi post sentenza di divorzio.
Come viene regolato il diritto al mantenimento della moglie oggi
Con l’emanazione della sentenza 11504/2017, in riferimento al caso Grilli – Lowenstein, la situazione sul mantenimento inizia a cambiare. Viene a questo proposito introdotto un nuovo indice di valutazione, che prende il nome di autosufficienza economica del coniuge richiedente l’assegno. L’excursus motivazionale operato dal giudice prevede infatti che il rapporto dei coniugi, inteso come condizione essenziale, venga rescisso una volta divorziati: la moglie avrà diritto ad un assegno solamente qualora sia priva di redditi o incapace di lavorare ma non per sua colpa. Questa nuova tendenza giurisprudenziale non è stata tuttavia esente da critiche: alcuni organi giudicanti ritengono infatti che il criterio del tenore di vita abbia comunque un ruolo chiave nel calcolo dell’assegno, indipendentemente dalle condizioni del contraente debole.
Riassumendo: mentre precedentemente l’assegno di mantenimento da parte del coniuge forte era un’entrata quasi sicura per la moglie, dal momento che l’attribuzione del diritto al mantenimento veniva determinato sulla base dell’agiatezza goduta durante il vincolo matrimoniale, allo stato attuale delle cose risulta più complesso. La moglie, per ottenere il diritto agli alimenti, dovrà dimostrare in giudizio di condurre una vita precaria e di non essere autosufficiente nel guadagnarsi il necessario al sostentamento.
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