Lo stipendio può essere pignorato? E se si, in che importi?
Prima di rispondere a questa domanda è importante fare una duplice distinzione, ovvero il pignoramento notificato al datore di lavoro e quello che riguarda direttamente l’istituto bancario, quindi sostanzialmente il conto corrente del debitore.
Nella prima ipotesi il datore di lavoro deve anzitutto comunicare al creditore se sussistono le possibilità di effettuare un pignoramento: nel caso in cui il lavoratore sia stato licenziato o si sia dimesso, infatti, per ovvie ragioni il pignoramento non è effettuabile in questa modalità.
Da questo punto di vista si può sottolineare che lo stipendio può essere pignorato fino ad un massimo di 1/5, dunque il datore di lavoro può versare direttamente al creditore tale quota fino a quanto il debito non sarà stato saldato.
Quando si parla di 1/5 dello stipendio si fa riferimento allo stipendio netto, non a quello lordo, e non esistono soglie minime al di sotto delle quali il pignoramento non può essere eseguito: anche uno stipendio di soli 300 euro mensili dunque può essere pignorato fino ad 1/5 del suo ammontare netto.
Va precisato che la regola che prevede il pignoramento massimo di 1/5 riguarda anche i lavoratori dipendenti creditori esclusivamente di TFR e gli agenti di commercio, i quali sono dunque pagati a provvigione da parte delle società committenti.
Nel caso in cui il soggetto debitore abbia effettuato una cessione del quinto, quindi qualora versi già 1/5 del suo stipendio a favore di banche e istituti finanziari, la cosa è del tutto irrilevante per quel che riguarda il pignoramento, dunque ipotizzando uno stipendio netto di 1.000 euro in caso di pignoramento verrà ugualmente trattenuta la somma di 200 euro mensili.
Nel caso in cui si verifichino più pignoramenti sul medesimo stipendio si segue di norma la logica cosiddetta dell’accodo: il secondo pignoramento inizia ad essere effettuato solo dopo che il primo ha garantito il saldo completo del debito.
Da questo punto di vista ci sono tuttavia delle eccezioni, ovvero nel caso in cui si tratti di crediti privati, quindi crediti riguardanti un professionista, un parente, un fornitore ecc., crediti riguardanti debiti con il fisco e anche crediti per alimenti, qualora il giudice abbia stabilito che il soggetto abbia l’obbligo di riconoscere gli alimenti alla sua ex moglie.
Nel caso in cui il rapporto di lavoro tra il soggetto pignorato e il datore di lavoro si concluda per una qualsiasi ragione, il pignoramento cessa anche laddove il debito non sia stato saldato per intero.
Nel caso in cui il lavoratore venga assunto da una nuova azienda, dunque, il pignoramento deve essere rinnovato tramite il nuovo datore di lavoro.
Come si accennava vi è un’ulteriore alternativa, ovvero quella di eseguire il pignoramento direttamente presso la banca, ovviamente notificandolo al debitore; in questo caso dunque il datore di lavoro del debitore è totalmente estraneo al processo.
Se sul conto corrente della persona non vi sono somme depositate il pignoramento non può sussistere, se invece vi è della liquidità derivante da redditi da lavoro dipendente il pignoramento non può essere mai integrale, ma può riguardare solo le cifre eccedenti all’importo di 1.345,56 euro.
Questa cifra è stata stabilita in quanto corrisponde esattamente a 3 volte l’assegno sociale, il quale è attualmente pari a 448,52 euro: al di sotto di questa somma appunto non è possibile recuperare delle somme nell’ambito di un pignoramento.
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